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Citoyens!

di Francesca
Lacaita

di Francesca Lacaita

Ci fu un periodo, tra il 2003 e il 2004, quando militavo nel Movimento Federalista Europeo, in cui raccoglievo le firme perché fosse inclusa nel Trattato costituzionale allora in discussione, la “cittadinanza europea di residenza”, l’estensione cioè anche ai cittadini di paesi terzi residenti in paesi UE dei diritti di cittadinanza europea istituita nel 1993 con il Trattato di Maastricht: il diritto di circolare e soggiornare liberamente nei territori dell’Unione; di votare e di essere eletti alle elezioni comunali ed europee nello stato in cui si risiede; di ottenere la tutela diplomatica e consolare di qualsiasi stato membro della UE in un paese terzo dove non sia rappresentato lo stato di provenienza; di inviare petizioni al Parlamento Europeo e di rivolgersi al Mediatore Europeo. Ispirata da Paul Oriol, la campagna, che si chiamava “Diritti senza confini”[1], mirava a eliminare le disuguaglianze e le discriminazioni tra stranieri “comunitari” ed “extracomunitari” che sono state create proprio dall’istituzione della cittadinanza europea (ad esempio uno straniero “comunitario” stabilitosi in Francia con una scarsa conoscenza della lingua può votare per il consiglio comunale dopo sei mesi, mentre non può un marocchino francofono residente da altrettanto tempo) e che producono molteplici differenziazioni di diritti, viste anche le diverse normative nazionali in materia di concessione della cittadinanza o di diritto di voto agli stranieri. La petizione chiedeva semplicemente di inserire nel Trattato che «È cittadino dell’Unione chiunque abbia la residenza nel territorio di uno Stato membro o abbia la nazionalità di uno Stato membro». A noi federalisti che avevamo aderito alla campagna, inoltre, ci piaceva l’idea di rifondare una cittadinanza europea a prescindere dalla propria cittadinanza nazionale, superando i paletti posti dal Trattato di Amsterdam, che ci teneva a precisare il carattere derivativo di quella da questa. Uno spazio di diritti uguali per tutti i residenti in tutta l’UE era indubbiamente un buon punto di partenza per spingere in direzione di un assetto democratico dell’Europa e della costituenda federazione europea.

È andata com’è andata. La cittadinanza europea di residenza non venne introdotta nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, quello che fu bocciato dai referendum popolari in Francia e nei Paesi Bassi nel 2005 e ripreso nei suoi elementi fondamentali dal Trattato di Lisbona. Di essa alla fine non sentii parlare più, finché mi convinsi, con rammarico, che per quanto auspicabile potesse essere riprendere la battaglia, ci fossero, indipendentemente dalla volontà politica, ostacoli strutturali a renderla irrealizzabile nel contesto attuale. Il Trattato di Amsterdam non faceva chiaramente derivare la cittadinanza europea da quella nazionale? E la materia della cittadinanza non è di esclusiva competenza degli stati? Non restava che – ancora una volta – porre all’ordine del giorno la questione del cambiamento dei Trattati, e magari in questa tensione palingenetica si sarebbe dato il giusto spazio anche alla cittadinanza europea di residenza. Come mi sbagliavo!

Mi sbagliavo perché ignoravo il percorso storico di questa idea della partecipazione degli stranieri alla vita pubblica dei paesi in cui risiedono – ed è un percorso che invece va conosciuto, perché cambia radicalmente la prospettiva. Innanzitutto, lungi dall’essere stata concepita per la prima volta da un manipolo di idealisti tra le illusioni inebrianti del periodo post-Maastricht, la questione del diritto di voto di tutti gli stranieri alle elezioni comunali era già stata adombrata in una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel lontano 1981[2]. Il passo successivo, sempre per il Consiglio d’Europa, fu la Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale del 1992 (STE n. 144), entrata in vigore nel 1997, che, considerando l’uguaglianza di fatto dei doveri tra cittadini e residenti stranieri a livello locale e puntando a una migliore integrazione di questi ultimi nel tessuto civico, prevedeva per loro la «libertà d’espressione, di riunione e di associazione» (Capitolo A), l’istituzione di «organismi consultivi per la rappresentanza dei residenti stranieri a livello locale» (Capitolo B) e il «diritto di voto alle elezioni locali» dopo cinque anni di residenza nel paese (Capitolo C). Anche se è stata attuata in modo molto casuale, saltuario e circoscritto, nondimeno questa Convenzione rimane particolarmente significativa, in quanto vengono esplicitamente affermate da parte di un’istituzione europea la possibilità e la desiderabilità di eliminare una discriminazione nei diritti cittadini e residenti, stante la parità di fatto dei doveri. In questa prospettiva il Trattato di Maastricht ha certamente rappresentato una svolta, in quanto ha separato formalmente per la prima volta la cittadinanza dalla nazionalità[3]; tuttavia ha pure introdotto una nuova discriminazione tra residenti stranieri a seconda del loro paese di provenienza. Questa sarebbe stata ribadita anche nella Carta dei Diritti Fondamentali, nella cui stesura, tra il 1999 e il 2000, si era sì scelto di privilegiare il termine «persona» in riferimento ai titolari dei diritti proprio per sottolineare l’universalità e l’indivisibilità di questi, ma la necessità di riferirsi ai «cittadini» in virtù del diritto europeo comportò nuovamente l’esclusione degli “extracomunitari” dai diritti goduti dai “comunitari”.

Tuttavia, allora non mancavano aperture anche all’interno degli stessi organismi europei, specialmente nel senso di consentire ai cittadini dei paesi terzi di acquisire la cittadinanza del paese UE di residenza senza troppe complicazioni. Nelle conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999 si era auspicato un «equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi», affermando che:

«L’Unione europea deve garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri. Una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’UE. Essa dovrebbe inoltre rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale e prevedere l’elaborazione di misure contro il razzismo e la xenofobia» (par. 18)

Nonché:

«Occorre ravvicinare lo status giuridico dei cittadini dei paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri. Alle persone che hanno soggiornato legalmente in uno Stato membro per un periodo di tempo da definire e che sono in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata dovrebbe essere garantita in tale Stato membro una serie di diritti uniformi il più possibile simili a quelli di cui beneficiano i cittadini dell’UE, ad esempio il diritto a ottenere la residenza, ricevere un’istruzione, esercitare un’attività in qualità di lavoratore dipendente o autonomo; va inoltre riconosciuto il principio della non discriminazione rispetto ai cittadini dello Stato di soggiorno. Il Consiglio europeo approva l’obiettivo di offrire ai cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente in maniera prolungata l’opportunità di ottenere la cittadinanza dello Stato membro in cui risiedono» (par. 21).

La Commissione Europea giungeva a posizioni analoghe[4]. Il salto invece verso la formulazione della cittadinanza europea di residenza in senso stretto lo fece il Comitato Economico Sociale Europeo in un parere del maggio 2003, in cui si diceva che:

«In diversi pareri elencati in allegato, il CESE ha proposto che la Costituzione conceda la cittadinanza dell’Unione ai cittadini dei paesi terzi stabilmente residenti nell’Unione europea.

La cittadinanza europea deve essere al centro del progetto europeo. La Convenzione sta sviluppando un grande progetto politico destinato a far sentire tutti i cittadini partecipi di una comunità politica e democratica di natura sovranazionale. Ora è il momento di arricchire il concetto di cittadinanza con un nuovo criterio di attribuzione: una cittadinanza dell’Unione non subordinata alla sola appartenenza a uno Stato, bensì anche alla residenza stabile nell’Unione europea.

Il CESE sostiene l’inserimento della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione nella Costituzione e l’adesione alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, il che si traduce nel riconoscimento di una cittadinanza “civica” quale prima tappa verso una cittadinanza partecipativa per chiunque risieda stabilmente sul territorio dell’Unione».

Questo era il periodo delle mobilitazioni dal basso per la cittadinanza europea di residenza. La campagna di cui faceva parte “Diritti senza confini” coinvolse almeno 124 associazioni di 11 paesi membri su 15. Ma premevano anche spinte in senso contrario, specialmente dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Significativa fu al riguardo la bocciatura da parte del Parlamento Europeo, il 17 gennaio 2006, della relazione di Giusto Catania, eurodeputato italiano di Rifondazione Comunista e membro del comitato promotore della campagna “Diritti senza confini”, che riproponeva tutti i contenuti della cittadinanza europea di residenza. Appare chiaro, dal risultato del voto e dalle dichiarazioni prima e dopo il voto, il carattere divisivo della questione tra gli europarlamentari e all’interno degli stessi gruppi parlamentari europei. Fino a che punto, cioè, diritti di cittadinanza e partecipazione politica possono considerarsi autonomi da una determinata nazionalità? È su questa domanda che la questione si è avvitata su se stessa.

Dopo il tentativo di Giusto Catania, la cittadinanza europea di residenza uscì dal discorso politico. Si continuò a evocarla sporadicamente, come nel 2013, proclamato dall’UE “Anno europeo dei cittadini”. Ma dalle elezioni europee del 2014 – da cui è iniziata la legislatura che ora volge al termine – non è stata più spesa una parola al riguardo. Si è invero auspicata una maggiore autonomia della cittadinanza europea dalla cittadinanza statale, ad esempio in occasione del referendum sull’indipendenza scozzese per contrastare la minaccia di espulsione dall’UE di un’eventuale Scozia secessionista, o per garantire la cittadinanza europea a quei britannici che la volessero, nell’imminenza della Brexit. Ma in questi casi si tratta di non privare di determinati diritti chi li ha già e teme di perderli contro la sua volontà (peraltro senza che si siano nel frattempo fatti progressi apprezzabili in questo senso). Non già di garantire uguali diritti a chi vive da straniero all’interno dello spazio UE.

La parabola della cittadinanza europea di residenza è emblematica della fase di passaggio dall’“età dei diritti” a quella “da cittadini a sudditi”. Le sue origini si iscrivono nelle dinamiche espansive ed inclusive dei diritti: è per rimuovere le discriminazioni fra cittadini e stranieri, non necessariamente per sviluppare una cittadinanza sovrannazionale, che il Consiglio d’Europa ne fece propri i primi elementi. L’istituzione della cittadinanza europea con il Trattato di Maastricht rappresentò un progresso per alcuni aspetti ma un regresso per altri, in quanto creò la figura dell’“extracomunitario” – “meteco” o “ilota” per definizione, a meno di non essere protetto da un passaporto o condizioni socioeconomiche “forti”, nel qual caso, “giustamente”, poco o punto interessato alla partecipazione civile o politica nella comunità di residenza. Tuttavia è difficile sfuggire all’impressione che i toni pur prudenti delle conclusioni del Consiglio Europeo di Tampere suonerebbero alquanto improbabili a distanza di vent’anni, e non solo per i diversi orientamenti politici dei capi di stato e di governo di oggi. È che nel frattempo ci siamo abituati a una certa reversibilità e condizionalità dei diritti, specie di quelli delle “ultime generazioni”, sociali e culturali, nonché di quelli degli “Altri”. Ci siamo abituati alla discriminazione su base etnica nella vita sociale e nel mondo del lavoro come a qualcosa di scontato. Ci siamo abituati ad ammantare di retorica nazionalista il discorso sulla cittadinanza e sui diritti, e preferiamo ignorare che sono spesso gli stati (europei e non) che si riservano di “vendere” la propria cittadinanza in cambio di denaro o di investimenti.

La stessa Unione Europea ha incoraggiato la differenziazione dei diritti a seconda della provenienza nazionale non solo con la discriminazione già vista tra “comunitari” ed “extracomunitari”, ma anche con le “disposizioni transitorie” sulla limitazione alla libera circolazione dei lavoratori introdotte in occasione degli allargamenti a Sud e a Est (già in occasione dell’allargamento a Spagna e Portogallo nel 1985) – dirette cioè proprio contro i più poveri tra i “comunitari” – riguardo cui ogni decisione può essere presa individualmente dai vecchi stati membri. E ciò non manca di avere ripercussioni politiche. Ci ricordiamo tutti del clima funesto, incupito da allarmismi, fake news, incitazioni all’odio, che accompagnò in alcuni paesi la caduta delle restrizioni per i cittadini bulgari e romeni il 1° gennaio 2014. Le grida contro il cosiddetto “turismo del welfare” da parte della stampa e dei governi rientrano in questo indebolimento generale della cittadinanza europea anche per i comunitari. Significativamente, se fino al 2014 la Commissione Europea aveva negato rilevanza a questo fenomeno, dopo le elezioni europee di quell’anno si sono manifestati anche nelle istituzioni UE orientamenti diversi, rafforzati da alcune sentenze recenti della Corte di Giustizia Europea.

In questo contesto la sinistra e i movimenti altereuropeisti  non devono partire da zero. Al contrario, è auspicabile che si riprenda da dove altri hanno lasciato (e coinvolgendoli nella lotta se possibile). Fino a un determinato momento, localizzabile attorno alle ultime elezioni europee, l’obiettivo della cittadinanza europea di residenza è stato fatto proprio da una pluralità di soggetti ed è stato discusso all’interno degli stessi organi UE. Esprime sinteticamente l’istanza di un’uguale base di diritti di cittadinanza all’interno dello spazio europeo prescindendo dalla nazionalità (che resta materia esclusiva degli stati). Il suo abbandono è stato causato da una congiuntura politica che è compito di chi si propone la democrazia in Europa rovesciare. Per questo occorre rilanciare la cittadinanza europea di residenza per affermare un’Europa dei diritti e della democrazia!

[1] La campagna includeva un’altra petizione popolare per la ratifica della Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. È interessante vedere la composizione del Comitato promotore e i nomi dei primi firmatari della campagna, reperibili qui. Al di là delle susseguenti derive nazionaliste di qualcuno, sarebbe difficile ora vedere insieme certi nomi in una causa che anche allora non era affatto scontata.

[2] Pierre Barge, Citoyenneté de résidence et débats européens, «Migrations Société» n. 146 (2013-2) pp. 89-102, reperibile qui. Faccio riferimento a questo articolo per tutta la ricostruzione del percorso storico.

[3] Vedi anche Pour la reconnaissance formelle d’une citoyenneté européenne de résidence, «Diasporiques», n. 24, Décembre 2013, pp. 6-20 (9), reperibile qui.

[4] P. Barge, Citoyenneté de résidence et débats européens, cit., pp. 94-95.