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Da un Cesare all’altro: il populismo oggi: Giulio Cesare

Da un Cesare all’altro: il populismo oggi

di Rocco
D’Ambrosio

È la parola del momento: populismo. E come spesso succede, per ciò che è di moda, viene usata a proposito e a sproposito, con poche possibilità di capire e discutere. Quindi sono – gli altri: i potenti, i ricchi, i leader, i capi, i dirigenti – un po’ tutti populisti. Lo sono Trump ed Erdogan, Di Maio e Renzi, Grillo e i Casaleggio, Le Pen e Salvini, papa Francesco e Angela Merkel, Berlusconi e Meloni e via discorrendo. Più la lista si allunga e meno riusciamo a capire. Laconicamente si direbbe: se lo sono tutti, in fondo, non lo è nessuno.

Allora: che cos’è il populismo? Il termine nasce a fine Ottocento, in Russia e, sin dal suo sorgere, non si presenta come “una dottrina sistematizzata una volta per tutte, ma come un atteggiamento politico, e mentale, cangiante nel tempo e nelle diverse realtà territoriali” (Treccani, Enc. Sc. Soc., VI). In questo tipo di atteggiamento abbiamo due poli importanti: il popolo e il leader. Riguardo al popolo va detto che, in genere, si tratta di un popolo non ben definito, accomunato da bisogni o stato di crisi, in disagio economico, che si sente orfano di reali rappresentanti dei suoi interessi, quasi in perenne stato di resistenza e assediato da alcuni nemici sociali storici (ebrei, immigrati, stranieri, neri e cosi via). Un’ambiguità costante che attraversa questo popolo è quella di sentirsi e/o di essere considerato una parte o il tutto. Ciò è evidente nei discorsi dei populisti di ogni epoca: il popolo è, in alcuni frangenti, la parte ostaggio, vittima, oggetto di sfruttamento da parte di poteri alti e forti; ma, in altri frangenti, è il tutto che solo può esprimere e realizzare le prerogative sociali e politiche migliori.

A questo tipo di popolo parla, si presenta e chiede consenso un leader che ha la pretesa di essere l’unico idoneo a rappresentare questo popolo. Scriveva Max Weber, più di un secolo fa: “L’importanza dell’attiva democratizzazione di massa sta nel fatto che il capo politico non viene più proclamato candidato in base al riconoscimento della sua buona prova nella cerchia di uno strato di notabili, per poi diventare capo in virtù del suo emergere in Parlamento, bensì conquista la fiducia e la fede delle masse in sé, e quindi il suo potere, con mezzi demagogici di massa. Nella sua essenza questo significa una svolta cesaristica nella selezione dei capi e, in effetti, ogni democrazia ha questa inclinazione” (1892).

Il Novecento è stato teatro, molto spesso, di questa svolta cesaristica. Emblematica è la storia di molti partiti politici nelle democrazie occidentali. In essi la svolta cesaristica è stata causata o favorita da dinamiche quali: immaturità personale, corruzione, organizzazioni monolitiche, depauperamento dei mezzi di controllo, scarsa partecipazione dei cittadini. Questi partiti sono diventati così veri e propri feudi, organizzazioni dove difficilmente nuovi interessati, specie giovani, possono avvicinarsi, partecipare e aspirare a posti di responsabilità. È tipico, inoltre, di queste forme di potere, la tendenza ad auto-replicarsi, con ogni mezzo e in ogni momento. La svolta cesaristica costituisce un fenomeno negativo di per sé pervasivo. Per cui succede che il leader di tale fattura non solo non tollera forme genuine e autentiche di relazioni di potere, ma tende a espandere il proprio modello in ogni direzione. In altri termini questo tipo di potere si autoreplica molto facilmente.

Nell’analisi sul populismo di Yves Mény e Yves Surel si afferma che la fondamentale caratteristica del populismo è la convinzione che il popolo sia “fonte del potere”. Da ciò deriva un “rifiuto della rappresentanza o una critica dei rappresentanti, un considerare il costituzionalismo un ostacolo insopportabile al potere del popolo”. La conclusione degli autori è chiara: “Il populismo è profondamente antiliberale” (2000). Il rifiuto di leggi fondamentali e procedure consolidate si potrebbe esprimere in una legge: il rapporto demagogico con le masse è inversamente proporzionale al rispetto delle leggi e delle regole vigenti. Con un approccio diverso al problema, i sistemi creati da svolte cesaristiche vengono identificati come nuove forme di assolutismo – dittature morbide sono state anche chiamate –, ossia strutture politiche apparentemente democratiche, ma di fatto regni dittatoriali, che sfruttano l’immaturità e l’ignoranza di molti. Si pensi a quello che accade in alcune democrazie dove apparentemente si conservano strutture democratiche, invece, attraverso meccanismi diabolici, si esautora la democrazia e si tradisce il patto costituzionale, generando forme di dispotismo mite, oggigiorno chiamato anche dittatura morbida. È stato Tocqueville, quasi due secoli fa, a farci riflettere sul fatto che questo tipo di dispotismo “sarebbe più esteso e più mite e degraderebbe gli uomini senza tormentarli” (1835).

In questo quadro generale, qui sinteticamente presentato, l’Italia nel suo piccolo ha dato e dà, da Mussolini a oggi, il suo contributo al fenomeno. Se restiamo agli ultimi vent’anni, la svolta cesaristica, o demagogica o populista, come dir si voglia, ha visto diversi interpreti sulla scena politica: leader che hanno fondato o piegato partiti alla propria volontà, hanno mortificato o distrutto qualsiasi opposizione interna ed esterna, hanno ignorato o tradito regole e prassi consolidate, hanno impiantato un potere autoreferenziale (molto spesso anche corrotto). Aldo Moro, riferendosi a questi fenomeni, parlava di “allettamento dell’assolutismo”, cioè il fascino ambiguo e pericoloso di un potere, che promette di “salvare e chiede di abbandonare nelle mani di pochi” la cura del bene comune.

Mi chiedo quanto il sedurre, nascondere, denigrare gli altri, promettere senza mantenere le promesse di diversi politici italiani finisca per essere anche una trappola per tutti. È ovvio – ma non sempre – che populismo e populisti vanno costantemente studiati e monitorati. Per una maggiore comprensione dei populisti contemporanei basterebbe seguire i loro interventi mediatici. Interviste TV, interventi sui social network, articoli di giornali, discorsi pubblici e libri molto spesso seguono alcune linee contenutistiche che rappresentano la conferma lampante del loro populismo. Seguendo Eric Voegelin diremmo che i capisaldi di populisti e demagoghi sono in genere i seguenti: 1. l’insoddisfazione per lo status quo e per tutta la storia precedente; 2. la convinzione che le difficoltà presenti si devono attribuire alla struttura intrinsecamente deficiente di questo mondo, su cui solo altri hanno responsabilità e non chi parla; 3. la convinzione che è possibile salvarsi dal male di questo mondo purché ci si affidi totalmente al nuovo capo; 4. l’emergere, nel processo storico, di un mondo buono da uno cattivo, da realizzare basandosi su promesse vane e nessuna visione strategica; 5. il mutamento dell’ordine del mondo rientra nell’ambito dell’azione umana, specie dei nuovi capi e di un “popolo” generalmente preso, ma mai individuato nelle sue forme istituzionali di rappresentanza; 6. il dovere del politico di cercare le soluzioni per determinare tale mutamento, in genere senza rispetto delle regole costituzionali e delle prassi politiche e istituzionali vigenti. 
Ecco Trump e il suo populismo. Ma ecco altri populisti italiani e stranieri: è quasi un gioco individuarli!

Ai vari populisti nostrani e non, molti hanno offerto il loro consenso e impegno, spesso in maniera entusiasta. Diversi cittadini italiani nei confronti dei leader demagogici, mostrano quella che Fromm chiama passione idolatra (1990). Perché è successo tutto ciò? Sembrano emergere due cause principali: la carenza formativa e la ricerca di potere e privilegi economici. Il deficit di formazione politica, cristiana o laica che sia, fa emergere il profondo bisogno di credere in un personaggio che si proponga come onnisciente, potente, capace di proteggere e di prendersi cura del singolo. Mancando ogni forma di discernimento si seguono uomini politici aventi come comune denominatore l’atteggiamento combattivo, assertivo, narcisistico, rassicurante, decisionista e onnipotente, come se si trattasse di semidei. L’ignoranza sembra essere il terreno su cui cresce questa passione idolatra. Non a caso Milani scrisse sul muro della sua aula: “l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone” (Milani, 1957). È la conoscenza, prima di tutto, che ha reso qualcuno padrone e l’operaio spesso subisce proprio perché sa di meno. È l’ignoranza dei cittadini uno degli elementi che fortifica i nuovi leader demagogici. Pochi anni prima Bonhoeffer, a proposito, avrebbe detto che “la potenza dell’uno richiede la stupidità degli altri” (1970).

Ignoranza, mancanza di formazione, assenza di partecipazione ai processi democratici generano le diverse forme di populismo. Nel documento dei vescovi dell’America Latina, riuniti ad Aparecida, si legge con chiarezza: “Prendiamo atto che vari processi elettorali denotano un certo progresso democratico. Tuttavia, guardiamo con preoccupazione il rapido avanzamento di diverse forme di regressione autoritaria per via democratica, che sfociano in alcuni casi in regimi di orientamento neopopulista. Questo conferma che non basta una democrazia puramente formale, fondata sulla trasparenza dei processi elettorali, ma che è necessaria una democrazia partecipativa e sostenuta dalla promozione e dal rispetto dei diritti umani. Una democrazia senza valori, come queste ricordate, si trasforma facilmente in una dittatura e finisce col tradire il popolo” (74).

Ma accanto alla carenza formativa non va trascurato il peso determinante della ricerca del potere e dei vantaggi economici. In tanti suoi interventi Francesco ha ricordato come spesso politici, imprenditori ed ecclesiastici trascurano i loro doveri per “coltivare il potere”. “Sui giornali – ha osservato il vescovo di Roma – noi leggiamo tante volte: è stato portato in tribunale quel politico che si è arricchito magicamente. È stato in tribunale, è stato portato in tribunale quel capo di azienda che magicamente si è arricchito, cioè sfruttando i suoi operai; si parla troppo di un prelato che si è arricchito troppo e ha lasciato il suo dovere pastorale per curare il suo potere”. Dunque, ci sono “i corrotti politici, i corrotti degli affari e i corrotti ecclesiastici”. E ce ne sono “dappertutto” (2014). Niente di nuovo! La storia biblica – sappiamo bene – ha tanti riferimenti a chi abbandona la via di Dio per diventare schiavo del denaro e del potere. Lo ha detto così bene lo psicologo Kets De Vries: “il potere è un grande narcotico: dà vita, nutre, ci rende schiavi” (1993).

Per concludere ritengo ancora valido il monito di Eric Voegelin: “Il disordine spirituale del nostro tempo – scrive nel 1959 –, la crisi di civiltà di cui diffusamente si parla, non devono essere affatto considerati come una fatalità ineluttabile, perché ognuno di noi possiede i mezzi idonei a superarla nella propria vita. (…). Nessuno è obbligato a partecipare della crisi spirituale di una società; al contrario, ognuno ha il dovere di evitare questa follia e di vivere nell’ordine la propria vita”. Nonostante i populisti e demagoghi di ogni latitudine.

di Rocco D’Ambrosio –  Ordinario di Filosofia politica, Pontificia Università Gregoriana, Roma; di Etica ella Pubblica Amministrazione presso il Dipartimento per le politiche del personale dell’Amministrazione del Ministero dell’Interno (ex SSAI, Roma); direttore delle Scuole di Cercasi un fine – www.rocda.it.