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Sinistra e migrazioni: lotte dei migranti

Sinistra e migrazioni

di Marco
Noris

di Marco Noris

Nei primi anni ’90  del secolo scorso, Immanuel Wallerstein cercò di analizzare il processo di disintegrazione del sistema-mondo, all’indomani della fine del sistema bipolare della guerra fredda che aveva governato il pianeta dal 1945. L’analisi non era solo determinata da un esercizio accademico volto all’interpretazione ex post bensì, come consuetudine della World System Theory, era finalizzata a delineare le tendenze future del sistema-mondo stesso. In particolare nel saggio “La guerra fredda e il Terzo mondo: i bei tempi andati?”, ad un certo punto Wallerstein si pone direttamente questa domanda: “Cosa accadrà al Terzo mondo?” dandosi immediatamente la risposta: “Poco di buono”. La diminuzione della partecipazione del Sud del mondo ai processi produttivi mondiali, la fine dei movimenti di liberazione nazionale e la loro sconfitta nei processi di autoderminazione finalizzati allo sviluppo nazionale erano le principali cause evidenziate al fine di spiegare quella che sarebbe stata la traiettoria di molti dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo.

Nessuno possiede la sfera di cristallo e, a distanza di oltre un quarto di secolo, quanto descritto in quel saggio non si è realizzato proprio esattamente, tuttavia, ai nostri fini, sono interessanti le risposte che Wallerstein offre; la domanda riguarda le alternative che  questi paesi hanno per affrontare questo stato di cose, e qui l’autore indica tre opzioni: la prima viene definita “opzione Khomeini”, un’opzione nella quale si riversa tutta la rabbia sul nucleo occidentale dell’economia-mondo capitalista, una condanna senza mezzi termini della cultura occidentale anche a partire dai suoi valori illuministici. La seconda è definita come “opzione Saddam Hussein”, nella sostanza contraria al rifiuto totale della modernità occidentale ma che aveva al proprio centro la coscienza che le diversità nei rapporti di forza hanno ragioni economiche e che il cambiamento dei rapporti di forza stessi è possibile solo manu militari. Conosciamo lo sviluppo storico di queste due opzioni che costituiscono nel presente capitoli affatto chiusi e conosciamo anche la reazione occidentale ad entrambe,  come nella più classica tradizione colonialista, reazione  connotata da efferata brutalità.

È però la terza opzione che a noi interessa maggiormente, quella che riguarda più da vicino la vita materiale e quotidiana delle persone, quella di coloro che la storia, alla fine, non la fanno ma sicuramente la subiscono pesantemente: l’opzione di resistenza individuale attraverso il trasferimento fisico e cioè, l’emigrazione. Wallerstein reputa questo fenomeno non solo come inevitabile, bensì indica addirittura la possibilità che entro il 2025 la presenza del Sud in seno al Nord potrebbe raggiungere la quota del 30-50%. Sebbene tali percentuali appaiano ancor oggi molto sovrastimate è fuor di dubbio che la tendenza in atto abbia precisamente questa direzione e non potrebbe essere altrimenti: la risistemazione geopolitica post ’89 inaugurata da Bush padre, con il Nuovo Ordine Mondiale e la prima guerra del Golfo, non avrebbe potuto avere esiti diversi. Di più: la destabilizzazione tutt’altro che casuale dal Medio Oriente a quasi tutta la vecchia Via della Seta, dei collegamenti tra Oriente e Occidente, con un particolare accanimento nei confronti dei paesi di cultura islamica, rispecchia non solo la volontà di ridisegnare il quadro geopolitico mondiale e la persistenza storica ormai millenaria dell’individuazione del nemico nell’Islam, ma forse anche la volontà di ritardare la ricollocazione del centro dell’economia-mondo capitalista in Asia.

L’attuale fase storica che si è aperta negli ultimi 25 anni si inserisce, però, in una tendenza storica plurisecolare e, semplicemente, quanto sta accadendo negli ultimi decenni, non è altro che l’accelerazione di un processo storico in atto da molto più tempo e che caratterizza le dinamiche dello sviluppo capitalista. Senza entrare nel dettaglio di tali dinamiche, che esulano dall’intento di questo scritto, per dirla con David Harvey, il capitalismo si è sempre evoluto attraverso il principio per cui ogni processo di accumulazione comporta un conseguente processo di espropriazione e, potremmo aggiungere, di esclusione. Se applichiamo tale principio ai rapporti tra Occidente e resto del mondo nell’ultimo mezzo millennio può quindi persino apparire strana la limitatezza dei fenomeni migratori in relazione alla disparità di ricchezza che il sistema ha saputo realizzare in un sostanziale breve tempo in termini storici, disparità che oggi ha raggiunto dimensioni mai conosciute nella storia dell’umanità. In buona sostanza, sebbene la contingenza degli ultimi decenni sembra presentare soprattutto all’immaginario europeo una situazione di emergenza, occorre che il vecchio continente prenda coscienza che non si tratta di una situazione emergenziale bensì strutturale, con la quale dovrà fare i conti per il futuro. Molto banalmente, si potrebbe affermare che esiste una legge che coinvolge tutte le forme di vita del nostro pianeta: dai batteri, alle forme vegetali, animali e al genere umano stesso: se le risorse non sono equamente distribuite, le forme di vita si distribuiscono dove sono presenti le risorse. Non c’è nulla da fare, con buona pace delle paure, delle isterie collettive occidentali, e dei proclami all’irrazionalità di una Destra troglodita. Le migrazioni continueranno: quasi per assurdo, proprio alla Destra andrebbe citato in questo specifico caso il vecchio slogan thatcheriano per il quale “non ci sono alternative”.

In realtà, in un’ottica di lunga durata che comprenda più o meno l’intero XXI secolo e soprattutto riferita all’Europa, sembrerebbero sostanzialmente 3 le possibilità di interruzione dei processi migratori: la fine dei processi capitalistici di accumulazione per esclusione -in pratica la fine del capitalismo stesso -; la totale periferizzazione dell’Europa nell’economia-mondo capitalista -con l’intensificarsi di processi migratori già in atto, anche se ancora a livello embrionale, dall’Europa verso l’Asia; e infine, la soluzione bellica e dello sterminio su base etnica, che conosciamo bene dal nazi-fascismo ma che, in realtà, è stata applicata nei secoli in diverse forme e intensità da tutti i regimi coloniali europei. Pur con tutte le precauzioni del caso, le tre soluzioni sono ordinate in senso decrescente rispetto alla loro possibilità di realizzazione: la prima sembra ancora piuttosto lontana all’orizzonte, la seconda descrive realisticamente un processo in atto ma i cui tempi e modalità sono tutt’altro che prevedibili, mentre la terza, purtroppo, ha le maggiori possibilità di realizzazione già nel breve e medio periodo.

Di fronte a tale analisi e tali scenari appare chiaro che l’approccio ai fenomeni migratori appare oggi tutt’altro che adeguato alle esigenze di costruzione di un qualsiasi futuro in Occidente e, nello specifico, in Europa. In particolare, questo preciso momento storico europeo, a un decennio dall’inizio della crisi, con rapporti interstatali interni al continente e internazionali tutt’altro che stabili e con una classe politica forse tra le più miopi e incapaci dal secondo dopoguerra, sta delineando una situazione di rottura e biforcazione rispetto alle traiettorie storiche passate, fenomeno di difficile lettura ma, sicuramente, di crescente pericolosità per l’intera tenuta continentale e per i singoli stati stessi.

Serve, quindi, una lettura, una proposta culturale e politica capace di progettualità di lungo periodo per poter affrontare la questione. In particolare, la Sinistra ha il preciso dovere di affrontare, nella sua costruzione progettuale, il fenomeno migratorio in questa ottica, di riuscire, una volta tanto, ad anticipare i tempi attraverso una proposta frutto di una lettura delle dinamiche storiche che, oggi, in pochi sembrano voler fare. Si potrebbe dire anche, però, che l’assenza di una progettualità politica in questa direzione potrebbe avere conseguenze nefaste, che a questa progettualità non possiamo sottrarci, dunque per la Sinistra questa progettualità è probabilmente indispensabile per la sua stessa sopravvivenza storica.

Detto questo da dove partire per costruire il progetto?

Sempre Wallerstein nel suo saggio, prefigurando il mondo da lui delineato post 2025, si immagina una società nella quale si sarebbe fatto di tutto per negare i diritti politici ai migranti, e ciò, in una prospettiva di lungo periodo, riporterebbe indietro le lancette della storia di un paio di secoli: quando all’inizio del XIX secolo alla massa delle classi più basse era negato il diritto di voto. Wallerstein conclude che questa non è certamente una ricetta per conservare la pace sociale.

In realtà ciò che sta accadendo è però proprio questo, e il riferimento agli inizi del XIX secolo potrebbe essere ulteriormente esteso alla luce del peggioramento delle condizioni di lavoro, alla discriminazione generalizzata delle classi meno abbienti in quanto tali, al richiamo al decoro del decreto Minniti-Orlando, fino alle attuali mostruosità salviniane che sembrano riportarci indietro in uno scenario degno dell’Inghilterra descritta nei libri di Dickens.  In questo senso la questione appare in tutta la sua drammaticità poiché ci suggerisce che la questione non è solo e semplicemente politica e/o economica ma culturale nel senso più ampio e profondo del termine. Diventa quindi centrale per qualsiasi azione il richiamo e l’urgenza nella realizzazione dell’uguaglianza, concetto che ricorre con insistenza negli ultimi tempi. Purtroppo per noi, l’involuzione culturale in atto ci porta a dover non solo riscoprire bensì a  ri-declinare un ideale che troppo presto avevamo dato per scontato come patrimonio comune dai tempi della Rivoluzione Francese.

All’atto e alla prassi politica va quindi anteposto un progetto culturale importante, terribilmente complicato per la Sinistra, dopo decenni di sconfitta culturale, ma che non può non avere una prospettiva egemonica almeno nel medio periodo.

Una delle declinazioni del principio di uguaglianza sembrerebbe obbligata a scaturire proprio dalla riattualizzazione e ricostruzione di quella che anticamente veniva chiamata “coscienza di classe”.

Al di là della superficialità di coloro che vogliono il concetto di classe sociale superato (e non si capisce mai da che cosa), la questione – come aveva anche ricordato l’ultimo Luciano Gallino – non è tanto che le classi sociali abbiano smesso di esistere in sé, piuttosto che abbiano smesso di esistere per sé. È appena il caso di sottolineare come anche questa situazione ci riporti indietro forse anche in un tempo precedente agli albori del XIX secolo, ma soprattutto, al di là della difficoltà oggettiva nel recupero della coscienza di classe, occorre chiedersi perché proprio da lì dobbiamo partire.

Giovanni Arrighi in una delle sue ultime interviste ricordava come a fronte di una generale proletarizzazione dei lavoratori, in assenza di una coscienza di classe, questi utilizzeranno tutte le differenze di status che si possono individuare, inventare e costruire per ottenere un trattamento privilegiato da parte dei capitalisti, mobilitandosi e sfruttando i differenziali di genere, nazionalità, o etnici per avere un trattamento privilegiato rispetto agli altri.

La situazione di crisi strutturale dell’Europa e del nostro paese in particolare ben si adatta a questa visione con particolare riferimento alla crescita se non all’esplosione dei riferimenti identitari nazionalisti ed etnici che hanno sostituito quelli di classe: a fronte di una disparità di ricchezza sempre più crescente, demolizione di diritti del lavoro, arretramento generale della democrazia, tagli della spesa pubblica contrapposti ai salvataggi degli istituti di credito, devastazione ambientale e inquinamento ormai a livelli tali da provocare un numero di morti pari a quello dei peggiori conflitti bellici, il nemico diventa l’immigrato o il profugo. È qualcosa di più di una semplice guerra tra poveri: è il naufragio di un progetto culturale, è la rassegnazione nell’impossibilità dell’uguaglianza come diritto di tutti, è la strenua difesa dei diritti all’interno del recinto del gruppo di status, che diventa sempre più angusto fino al limite della tribalità.

In questo senso l’uguaglianza declinata all’interno del concetto di classe sociale sembra inevitabile con tutto ciò che questo comporta. Il progetto culturale della Sinistra, difficilissimo ma senza possibilità di alternative, contiene il fine del riconoscimento dei pieni diritti civili, di cittadinanza ed economici per tutti gli immigrati secondo il principio dell’uguaglianza, possibile solo attraverso un paziente ma costante e continuo lavoro di costruzione di una coscienza comune che coinvolga indistintamente Europei, Italiani e migranti.

Per poter costruire tutto ciò vanno però coinvolte fin da subito le comunità di immigrati: solo con loro si potrà stabilire quale denominatore comune starà alla base della costruzione stessa, solo attraverso la comune partecipazione si potranno stemperare le differenze culturali ed identitarie che non esistono soltanto tra l’Occidente e coloro che vengono da fuori ma sussistono tra ogni singola cultura e gruppo sociale. Non si tratta quindi di costruire qualcosa di integrato ad un sistema, bensì realizzare nella pratica sociale, economica e quotidiana una società di eguali nella quale possano convivere le diverse identità, così come già affermava e auspicava nei primi anni ’90 Alex Langer. È una sfida difficilissima che, per la verità, l’Europa non ha mai affrontato, anzi ha cercato di evitare regolando i rapporti con l’altro da sé, in base a puri rapporti di forza. È la declinazione di un principio di uguaglianza che dalla Rivoluzione Francese ad oggi l’Occidente ha quasi sempre eluso se non proprio nei casi nei quali l’altro da sé, per ragioni storiche e geopolitiche, non si trovava separato in termini geografici bensì sotto “lo stesso tetto” in termini territoriali: la storia conflittuale degli Stati Uniti e del Sud Africa è emblematica ma lo è anche, in un certo senso, l’incontro-scontro tra Europa e Islam nell’area mediterranea. In un mondo nel quale la polarizzazione economica e sociale sta perdendo una specifica distinzione in aree geografiche e in cui i fenomeni migratori diventano inevitabili, la costruzione di una nuova società a partire dalla riscoperta di un’identità capace di costruire un “noi” comune, di far saltare la distinzione con l’altro nel rispetto di qualsiasi altra persistenza identitaria, è una necessità concreta, un arricchimento identitario e non una sottrazione. Per quanto questo progetto possa apparire utopico, l’alternativa della disuguaglianza e della discriminazione porta sempre alla radicalizzazione delle persistenze e delle resistenze culturali, al conflitto aperto: se non vogliamo essere utopici è bene sapere che questo, con molta probabilità è il mondo che ci aspetta probabilmente a partire già dalle attuali giovani generazioni.

Per quanto questa sfida alta possa far sorridere molti, questa volta, potremmo essere noi ad affermare: There Is No Alternative.

C’è però un altro fattore determinante che  va affrontato dalla Sinistra per realizzare questo progetto e che riguarda in maniera diretta la questione della costruzione del nuovo “noi” comune.

Se c’è una cosa, ampiamente sottovalutata, che ha contraddistinto la storia del cosiddetto neoliberismo dalle altre fasi del capitalismo è che non si è limitato ad agire la lotta di classe dall’alto ma si è spinto oltre, distruggendo sistematicamente il concetto stesso di identità collettiva. La frase della Thatcher per la quale “La società non esiste: esistono individui” esprime in pieno quest’opera di destrutturazione, nel vero e proprio senso antropologico del termine, e cioè di prospettiva storica di de-culturalizzazione. E ne consegue la demolizione delle progettualità collettive alternative in termini sistemici e, per la verità, anche di quelle individuali.

Sempre in termini antropologici, però, non è possibile eliminare l’esigenza umana di riconoscersi collettivamente in termini identitari e, tornando alle riflessioni di Giovanni Arrighi, la demolizione dell’identità di classe e, quindi, non semplicemente della coscienza della stessa, ha comportato le ricostituzioni identitarie -attualmente egemoni- di status attorno ai concetti di nazione, etnia e, al caso, di religione. La cronicizzazione della crisi ha fatto il resto, rafforzando questo processo, in un contesto attuale nel quale possiamo rilevare almeno due aspetti salienti: il primo è che l’attuale fase di conflitto tra il capitale nazionale e globalizzato, sebbene giocata sempre all’interno dello stesso sistema e ben lungi dal metterlo in discussione, potrebbe comportare effetti fortemente destabilizzanti già nel breve periodo; il secondo, quasi mai esplicitato fino in fondo, è che in tali condizioni sia geopolitiche che di egemonia culturale in termini identitari, i processi e i conflitti in corso possono avere solo una gestione e uno sbocco a Destra. Con buona pace di qualsiasi velleità della Sinistra sovranista non c’è modo, oggi, di mettere in moto e gestire processi a partire dalle attuali identità di status che abbiano poi il risultato sperato. Certo, si può forse ottenere qualche successo in termini elettorali e di breve periodo, ma al prezzo di una sconfitta politica e culturale nel medio/lungo probabilmente definitiva.

Ecco quindi che l’utopia della costruzione di un altro concetto di “noi” comune diventa necessaria.

Ci aspetta forse un lunghissimo lavoro ma che deve partire da una ricostruzione identitaria diversa e che, in particolare, non può fare a meno di basarsi sull’oggettività della condizione materiale delle persone, come è, a differenza di tutte le altre, l’identità di classe. Ma se la strada è questa nella comunanza della condizione materiale, gli immigrati non solo non possono rimanere esclusi, ma diventano parte integrante e irrinunciabile alla costruzione identitaria stessa.

In queste condizioni storiche sostanzialmente proto-fasciste per il nostro continente, una Sinistra che contrapponesse gli interessi delle classi subalterne nazionali a quelle dei migranti, non solo ammetterebbe la propria sconfitta in termini progettuali e l’accettazione dello status quo (può una sinistra definirsi antiliberista o addirittura anticapitalista accettando implicitamente il principio di accumulazione per espropriazione così ci come insegna David Harvey?), ma faciliterebbe la strada alla realizzazione di quel fascismo 2.0 che la prima parte di questo secolo ci sta proponendo.

La salvezza non solo del continente ma anche di una Sinistra degna di questo nome passa, quindi, attraverso una costruzione collettiva di un’identità di classe che non abbia confini tanto di stato quanto etnici: per quanto appaia difficile da realizzare, qualsiasi soluzione alternativa a questa mostra una debolezza probabilmente superiore a quanto ne avrebbe avuta in qualsiasi altro periodo dell’ultimo secolo passato.